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THE GRANDMASTER
(YI DAI ZONG SHI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 settembre 2013
 
di Wong Kar-wai, con Tony Leung, Chen Chang, Ziyi Zhang, SongHye-kyo, Benshan Zhao (Hong Kong - Cina, 2012)
 
Dodici, rispettivamente otto anni ci separano da due titoli sublimi di Wong Kar-wai, IN THE MOOD FOR LOVE e 2046; cinque dal meno convincente, girato in America, MY BLUEBERRY NIGHTS . Come qualche altro maestro (Kubrick, Malick) il regista di Hong-Kong nato a Shanghai ama farsi attendere, 10 lungometraggi in 20 anni. Così, qualche maldicenza circolava sulla gestazione protratta di questo progetto, il primo nel quale il maestro di tante atmosfere sopraffine pareva abbassarsi al pari di altri mortali girando un film sulle arti marziali. Un omaggio a Ip Man (1893 – 1972), maestro del divulgatore Bruce Lee, dalla casata nobile ma decaduta a partire dal 1937 dell'invasione giapponese della Manciuria, divenuto infine insegnante anche di kung-fu nella Hong-Kong del dopoguerra.

Ancora un biopic ? Perché dubitarne, ancora un film dilatato all'infinito dallo sguardo siderale di Wong Kar-wai, splendido come la gemma di uno stile inimitabile (se non nelle scimmiottature più o meno digitali), al tempo stesso riflessivo e malinconico come i sentimenti che esprime da sempre: la fatica di riandare al passato, l'impossibilità di valutare il tempo che scorre, l'angoscia di non riuscire a trasmettere la propria conoscenza. E, sullo sfondo della nascita della Repubblica Popolare una di quelle sue storie pudiche e per questo lancinanti di seduzione, amore e erotismo. O, piuttosto, dell'impossibilità di viverle: quando i tempi dell'intimo non coincidono con quelli dell'esteriorità, la gioia dell'istante è ad ogni istante sopraffatta dal peso del rammarico nostalgico.

Sentimenti evanescenti, quasi contrapposti, come le due tendenze che governano l'equilibrio instabile del suo cinema, la costante, sopraffina ricerca formale e lo struggente romanticismo. Che il genio del regista traduce in sequenze di miracolosa intuizione, come quella dei due corpi in lotta degli amanti impossibili, rivali quando si tratta di kung-fu: librandosi in aria in un voluttuoso balletto disperato, cercandosi, sfiorandosi senza mai riuscire ad avvincersi, nei corpi, nelle labbra, negli sguardi.

Per alcuni il preziosismo, la ricerca esasperata del bello che s'indovina in ogni taglio dell'immagine, ogni sequenza, illuminazione, dominante cromatica, sonora o musicale (si finisce addirittura nella citazione del mitico tema morriconiano di C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA) finisce per incrinare il peso poetico e ideologico del cinema di Wong Kar-wai. Ed è vero che in THE GRANDMASTER qualche ripetizione (nella maestria delle arti marziali), qualche inciampo nella sceneggiatura, ellissi di troppo nel montaggio della conseguenza temporale nuoce alla leggendaria emozione dell'autore, che si esalta solo verso il finale.

Ma, costruito com'è, ad esatta immagine del soggetto di cui tratta, nell'opposizione fra orizzontalità e verticalità, nell'avvicendamento fra pausa contemplativa (la neve) e furibondo movimento (la pioggia), incantato naturalismo e improvvisa astrazione, coralità ambientale e trascendenza dei primissimi piani, THE GRANDMASTER finisce per accogliere e custodire in tenera armonia la partecipazione di tutti i suoi personaggi. A cominciare da quella coppia meravigliosa, un Tony Leung progressivamente maturo, una Zhang Ziyi filmata con (comprensibile...) infinita passione.


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